Quando si parla di EDM italiano, quello di qualità, non si può non parlare di Rocco Rampino meglio conosciuto come Congorock. Mix sempre grintosi, produzioni di qualità (ricordiamo ad esempio quelle su Ultra Records) e una personalità definita sono le chiavi del successo di Congorock.

E questa è la sua intervista!

-Come ci si sente ad essere uno dei tanti italiani che portano in alto la bandiera italiana nel mondo dell’EDM?

Mi sento fortunato per avere avuto l’opportunità di viaggiare e vivere facendo musica. L’esperienza è cominciata prima che il termine EDM venisse coniato, per cui mi ci riconosco molto parzialmente. Tuttavia sono consapevole del fatto che gran parte del mio pubblico attuale provenga dall’EDM. Gli altri nomi italiani con cui ho iniziato quest’avventura, Bloody Beetroots, Crookers, Benny Benassi sono stati grandi amici e tuttora con loro ho un rapporto d’amicizia prima ancora che professionale. Nell’arco di 7 anni abbiamo visto la musica electro evolversi radicalmente. Sono rimaste l’intensità e l’aggressività del sound, ma sono cambiati pubblico, posti, il modo di comunicare, e anche il “look” di tutto il carrozzone. Naturale che dopo tanti anni tutto cambi: a volte in meglio, a volte in peggio. Ci sono molti produttori italiani sulla rampa di lancio al momento, ovviamente Merk & Kremont spiccano su tutti, sono sicuro che siamo solo all’inizio e avranno un grandissimo successo.

-Come è nata la tua passione per la musica?

Sono cresciuto in un contesto familiare molto vicino alla musica grazie a mio padre e ai suoi strumenti musicali. Non ha mai fatto della musica una professione vera e propria, però devo rendergli atto di avermi fatto avvicinare a tastiere, sintetizzatori, batterie varie sin da piccolo. Ora non è che questo sia un passaggio obbligato che spiega tutto quello che viene dopo… Molto spesso leggo le bio dei musicisti (e dj) che cominciano per “sin da piccolo…” come se fosse una specie di legittimazione divina che si manifesta in tenera età per cui se sai suonare a 7 anni è chiaro che poi farai della musica il tuo lavoro. Magari fosse così. Per molto tempo della mia vita non ho mai pensato a fare musica e tanto meno il dj full time. Dai 14 ai 23 anni ho fatto parte di band hardcore punk coinvolte nel giro dell’autoproduzione o d.i.y. che dir si voglia. Ci siamo prodotti i dischi da soli, organizzati tour in europa in america grazie ai nostri contatti creatici prima ancora della diffusione di internet (facevamo tutto per posta!) e grazie a una rete di pubblicazioni underground, le fanzines, che ci permettevano di mantenerci aggiornati, anche se con tempi diversi dall’internet odierno, su quello che accadeva nel resto della scena hardcore. E’ stata un’esperienza fondamentale che mi ha insegnato a stare al mondo, sulla strada, a rispettare chi lavora con me e per me. Pur senza aver messo un soldo in tasca. Abbiamo sempre reinvestito tutto in registrazioni, altri tour, strumentazione. Tengo precisare spesso questa cosa spesso nei confronti dei miei nuovi fan che magari mi seguono da poco, e magari si aspettano che anche io rispecchi lo stereotipo del dj che è nato col rolex al polso e col jet privato in garage. Io vengo da un mondo di valori completamente diverso, e anche ad averli quei soldi ne farei un uso diverso.

-Cosa ti ha portato a produrre musica?

Nel 2006 mi sono trasferito a Milano per motivi di lavoro e ho dovuto rinunciare alle mie band, per questioni di sopravvivenza, perché aldilà dei meriti e dei riscontri vari (se qualcuno è curioso può cercare su discogs la mia discografia passata, cercando La Quiete o Death Of Anna Karina) era diventato un lusso che non potevo permettermi economicamente dalla mia prospettiva di neo-laureato fuori sede (mantenuto). Armato di pc e Technics 1200 l’unica cosa che mi rimaneva era provare a dare sfogo una volta per tutte alla passione per la musica elettronica che avevo iniziato a seguire inizialmente con la detroit techno, i dischi R&S anni 90, UR, Axis, Purpose Maker, il catalogo Warp, ma i dischi che mi hanno davvero fatto uscire fuori di testa sono stati Ken Ishii “Jelly Tones” e Basement Jaxx “Rooty”. Direi che dopo averli ascoltati ho sempre covato il desiderio di fare mie produzioni. Il primo pezzo che ho prodotto è stato “Exodus” che è stato pubblicato su Discobelle, un blog che ha sempre dettato il bello e il cattivo tempo in merito ai nuovi trend della musica elettronica, ed è partito un pò tutto da lì perché mi hanno messo contratto poco dopo su Fool’s Gold Records… e il resto si può trovare su Beatport!

-Produzioni o collaborazioni in futuro?

Ho in cantiere un sequel di Synthemilk coi Daddy’s Groove e un’altra collaborazione con Jacob Plant. Poi un’altra roba che è ancora segreta ma riguardo a cui sono davvero eccitato in quanto si tratta di uno dei nomi storici dell’elettro mondiale. Spero di poter fare sentire presto qualcosa.

-La label più forte in questo momento per te?

Sto comprando molti dischi ultimamente, quindi anziché dirti la solita Spinning che oggi ha 30 pezzi uguali in top 100 ne approfitterei per fare qualche nome nuovo e di generi diversi, rimanendo fermi in ambito di musica elettronica
L.I.E.S. Records, la label di Ron Morelli, che ha un catologo già bello grosso di produzioni house e techno molto grezze, improntate su un suono analogico quasi lo-fi. 
Blackest Ever Black, un’etichetta che rispecchia perfettamente la mia passione sia per la musica noise sperimentale che per la techno, il tutto con un’estetica molto dark e scura. Non è suono facile o “club”, ma se parliamo di musica elettronica questa label ha detto degli spunti molto interessanti.
Token, forse la mia etichetta techno europea preferita al momento, non sbagliano un’uscita. solo mine.

                                                        Ringraziamo Congorock per la sua disponibilità.

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